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Il pensiero, questo sconosciuto


Una persona è in piedi ferma e osserva in altro, assorta in qualche pensiero. Intanto sulla strada sfrecciano le auto e i bus, che creano effetti di luce per i fari catturati in velocità.
Fermarsi tra i ritmi frenetici

Siamo la generazione della deriva del “tutto subito” in cui l’agire ha il primato sul pensare, ma a volte un’apparente immobilità riflessiva può essere salvifica.


Lo sviluppo tecnologico, internet e la diffusione degli smartphone hanno accelerato in modo vertiginoso la trasmissione di informazioni; la facilità e la rapidità di scambio virtuale ci inducono a comunicare qualunque cosa e, parallelamente, ci rendono bersagli di continui stimoli. Che questa mole di informazioni ci accompagni nella giornata, si insinui in ogni attimo vuoto e lo riempia, è un fatto preoccupante: alla fermata dell’autobus, sulla metropolitana, in sala d’attesa del medico o in fila alle poste non cambia, la popolazione è spaccata. Da un lato gli over 70, che tendenzialmente si guardano intorno immersi in qualche pensiero, sapendo tutto sommato tenersi compagnia da soli; dall’altro lato il resto della popolazione che sembra aver perso (o mai acquisito) questa capacità. Diventa quindi necessario, per intrattenersi e per sopportare l’attesa, l’ausilio del cellulare: una chiamata, delle note vocali, dei video su YouTube scelti casualmente tra i suggeriti. Tra tutti i passatempi, la medaglia d’oro va senz’altro alla scrollata su Instagram o Facebook, la quale ha un duplice vantaggio: da un lato offre perlopiù stimoli di immediato consumo, da divorare in pochi secondi per poi passare oltre, dall’altro lato non si esaurisce mai, ma anzi si moltiplica. Il trionfo del digito ergo non penso.

Siamo dei consumatori patologici di stimoli inconsistenti, da ingurgitare ed espellere nello stesso istante, in un circolo bulimico. Questo ci suggerisce Gaber che, con L’Obeso, nel 2001 intuiva il fenomeno quando ancora era ai suoi albori, e lo esprimeva metaforicamente così: “L’obeso mangia idee mangia opinioni/ computer, cellulari/ dibattiti e canzoni/ mangia il sogno dell’Europa/ le riforme, i parlamenti/ film d’azione e libri d’arte/ mangia soldi e sentimenti/ e s’ingravida guardando e mangiando/ gli orrori del mondo.”


E' raffigurato un signore a petto nudo, decisamente sovrappeso che si nutre delle icone dei principali social network.
Giorgio Gaber, L’Obeso di Marco Sabbia

La pandemia di Covid-19 ci ha costretti a fermarci bruscamente ed inaspettatamente. Salvo rare eccezioni ci siamo trovati bloccati in casa, senza più la possibilità di andare nelle Università, al lavoro, in palestra, nei negozi, o anche solo a fare una passeggiata. Ogni mattina, svegliandoci, ci si prospettavano davanti manciate di ore che molti hanno cercato di riempire con varie attività che dessero un senso alla giornata: sport, cucina, arte… In pochi sono stati in grado di accogliere (anche solo parzialmente) una situazione tanto assurda e trasformarla in un’opportunità di riflessione. In questo senso la pandemia ci ha mostrato in modo lampante che nelle nostre vite l’azione ha il primato sul pensiero: i vuoti vengono colmati agendo, non pensando.

Siamo una generazione frenetica, in cui chi corre meno viene lasciato indietro, in cui sembra capeggiare il detto mors tua vita mea, e la performatività spinta agli estremi diventa chiave di sopravvivenza. Siamo la generazione della deriva del pretendo, del “tutto subito”, del superfluo che diventa necessario ed irrinunciabile, viziata dal delivery che esegue ogni desiderio. Esempio lampante è Amazon, grazie al quale ogni prodotto immaginabile è alla portata di click: che venga dal Giappone, dagli Stati Uniti o dal Vietnam, sappiamo che nel giro di pochi giorni un giovane fattorino ci suonerà al campanello annunciando: «corriere Amazon!». Succede dunque che il desiderio, l’attesa e l’impegno per raggiungere un obiettivo siano sempre meno implicati nell’ottenimento dello stesso.


Si vede una figura umana assorta con gli occhi chiusi. Sulla fronte è incastonato un orologio
Il tempo del pensiero di Marco Sabbia

Trasponiamo questo discorso alla psicologia e alla salute mentale per domandarci se la tendenza finora descritta valga anche quando si parla di sofferenza psichica. Dico sofferenza e non disagio, non patologia, poiché mi riferisco a quel malessere più o meno intenso inevitabilmente esperito da tutti e insito nelle vicende umane: una frustrazione lavorativa, la fine di una relazione sentimentale, un litigio tra amici, incomprensioni tra familiari…

Come ci poniamo di fronte a queste vicende spiacevoli? Come affrontiamo le emozioni “negative” come la rabbia e la tristezza, con quanta difficoltà sopportiamo la frustrazione, l’incertezza, il dubbio? Direi che il “tutto subito” sembra capeggiare anche nelle vicissitudini psichiche, almeno a livello conscio. Il malessere diventa totalizzante, si ingigantisce, sovrasta, schiaccia. Parallelamente si palesa l’incapacità di esperirlo, di accoglierlo, di viverlo: lo si vuole rigettare, far tacere, annullare.

Ed ecco dunque ancora una volta il primato dell’azione (o meglio, dell’agito) sul pensiero e sulla parola: l’agito si concretizza nel farmaco (l’ansiolitico per esempio), spesso considerato panacea di tutti i mali, come avvolto in un’aura di magia. E’ un’azione di annullamento, sedativa, che silenzia ciò che non piace, che rifugge il sentire: a livello temporale siamo nell’ordine di minuti, di ore o di giorni. Inutile dire che sopprimere non fa scomparire, fa solo tacere nel qui ed ora un sentire che tornerà ad imporsi a voce sempre più alta. Se il farmaco è il rappresentante dell’agito, al contrario la psicoanalisi è la forma forse più riuscita di pensiero: la talking cure (cura parlata), denominata anche chimney-sweeping (cioè spazzare il camino nel senso di ripulire metaforicamente la psiche, spazzare gli strati di fuliggine accumulati) [1], obbliga a fermarsi, a stendersi, ad affidarsi, a dire i non detti, fino a rendere conscio l’inconscio. La psicoanalisi richiede desiderio, tempo, fiducia, riflessione, fatica psichica, risorse emotive, capacità di restare nel dubbio e nell’attesa: siamo nell’ordine di anni, se non decenni. La sofferenza può qui parlare perché viene ascoltata, accolta, trasformata e rielaborata: la sua voce si attenua nel tempo finché è così flebile da non udirsi.


Una mano aperta raffigurata in bianco e nero, tiene una serie di pillole colorate. I farmaci in questione porterebbero bellezza, amore, verità, pace, salute, felicità, sollievo, speranza.. Si tratta di una provocazione contro la tendenza attuale a medicalizzare tutto
Il farmaco, panacea di tutti i mali. Credits: cantupsicologia.com

Così in questo secondo lockdown, oltre a lievitare il pane e decorare casa per le feste, prepariamoci alla venuta di Babbo Natale facendo chimney-sweeping e proviamo a riaccogliere questo grande assente, il pensiero.



[1] Freud, S., (1892-95), Studi sull’isteria. OSF, vol.1.

Immagine di copertina: hdfondos.eu rielaborazione grafica di Serena Bonomi


Scritto da Dott.ssa Sofia Bonomi, Psicologa Milano Porta Romana e Brescia

Pubblicato in data 26/11/2020 su Echoraffiche.

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