Il corpo si veste per coprirsi, o per mostrarsi? La macchina della moda ci ha abituati a guardarci attraverso lo sguardo dell’altro, riducendo l’individuo all’oggetto ed elevando l’abito al soggetto in campo.
Seguiamo la buona prassi che suggerisce, quando si vuole aprire un argomento, di partire dall’inizio. Partiamo dunque dal racconto del Principio dei principi, l’esordio per eccellenza: la Genesi. Nel primo capitolo troviamo Dio affaccendato nella creazione del cielo e della terra, il mare, le piante, i corpi celesti e gli animali di ogni specie, finché, al sesto giorno, crea l’uomo e la donna. Adamo ed Eva scorrazzano beati (e nudi!) nel giardino dell’Eden «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna»¹ – ma, ingannati dal serpente, non appena mangiano il frutto proibito dell’albero della conoscenza del bene e del male, eccoli d’un tratto paonazzi di vergogna:«Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture»².
Per la prima volta, metaforicamente parlando, Adamo ed Eva aprono gli occhi, vedono l’altro, e nello sguardo dell’altro, vedono il segno di un corpo da nascondere. E così è, anche da un punto di vista storico ed evolutivo: l’uomo, man mano che diventa tale e che si sveste dei peli che ricoprivano gli antenati primati, sente l’esigenza di coprirsi con pelli di animali che assicurano una maggior protezione.
Nel corso della storia le vesti diventano rapidamente segno e simbolo di appartenenza ad un gruppo e a sottogruppi che si sono via via creati e fatti riconoscere anche attraverso variazioni nel vestiario stesso. Già nel 500 sappiamo che il colore del mantello variava in base alla professione di chi lo indossava: a Venezia, per esempio, i medici e i ministri erano soliti indossare mantelli blu, mentre gli studiosi prediligevano quelli rossi e i giuristi e teologi quelli neri.
Anche all’interno degli ordini religiosi, i monaci si impongono vicendevolmente regole sulle caratteristiche dei loro abiti: al monaco benedettino era imposto di vestirsi sobriamente ma, se dapprima doveva indossare un abito chiaro, questo venne poi sostituto da uno nero, per distinguersi dai Cistercensi, per cui, a conti fatti, (anche) l’abito fa il monaco… Da un valore protettivo il vestito ha dunque ben presto assunto un valore simbolico che veicola l’intenzionalità del soggetto: al variare della veste varia il mondo. Ce lo raccontano bene i nostri nonni che da bambini avevano l’abito da tutti i giorni e l’abito “buono”: quest’ultimo era indossato solo la domenica e, d’altra parte, nessuno si sarebbe sognato di mettere l’abito da festa fuori da quel preciso contesto. Un altro dato a cui oggi, a distanza di così pochi anni, è difficile credere riguarda la durata del vestito: la moda all’epoca seguiva i ritmi lentissimi del suo stesso logoramento, per cui un abito era indossato finché l’integrità della stoffa lo consentiva, e solo allora i più benestanti lo sostituivano, mentre i meno abbienti lo rattoppavano.
Poi, alla fine degli anni ’90, arriva ilBig Bang del fast fashion, che oltre ad aver modificato radicalmente i ritmi della moda, in ragione della maggior accessibilità dei vestiti, ha anche operato una vera e propria rivoluzione, sintetizzabile con il motto: se vuoi essere questo, vestiti così. La costruzione e il mantenimento dell’identità oggi si basano, volenti o nolenti, primariamente sulla scelta dei vestiti che indossiamo: in altre parole si fondano su artifici evanescenti, la cui durata è limitata al tempo in cui si indossa l’abbigliamento stesso. Segno di quella libertà obbligatoria di cui parlava Gaber nelle sue canzoni, e tra queste una, Il comportamento, ce lo ricorda bene: «Qualche volta metto il mio giaccone/Grigioverde tipo guerrigliero/E ci metto dentro il mio corpo/E già che ci sono anche il mio pensiero/[…]/E se mi viene bene/Se la parte mi funziona/Allora mi sembra di essere una persona», per poi concludere in modo lapidario, ricordandoci che se cercassimo a fondo chi siamo, probabilmente non troveremmo niente.
La moda oggi è una macchina economica il cui fine è aprire nuovi desideri per poi trasformarli in bisogni con il carattere di necessità, per cui ciò che materialmente sarebbe ancora utilizzabile, dal punto di vista sociale non lo è più. Se della natura si può dire che non ci sono più le mezze stagioni, la moda ogni anno ci ricorda che esistono, facendo uscire nuove collezioni che mostrano il suo continuo mutamento e che spesso ribaltano i dettami fino a pochi mesi prima affermati: «il tratto nichilistico della moda, che vive nella negazione del mondo da essa prodotto perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo»³ ma, poiché l’immagine veicolata dalla moda prevale sulla personalità dell’individuo e quest’ultimo si guarda attraverso lo sguardo dell’altro, è costretto, nella sua assoluta e sterminata libertà di scegliere cosa indossare e quando, ad acquistare la nuova pelle che sfoggerà il mese dopo.
La veste diviene il soggetto, mentre l’individuo, con il suo corpo da ricoprire, l’oggetto. Questo è il potere della moda, elevata a «dea creatrice che può permettersi di parlare di corpi mal fatti perché ha l’onnipotenza di rettificarli, attraverso quella serie di artifici che allungano, assottigliano, gonfiano, ingrossano, diminuiscono, affinano, fino a trasformare il corpo reale in corpo ideale»⁴. Anche il desiderio è soggiogato, tenuto in scacco dalla moda: le vesti velano e svelano, fanno intravvedere e nascondono, stimolano e interdicono. In passato l’uomo era costretto nel corpo della fatica, atto a lavori manuali e stremanti, la donna nel corpo della riproduzione, continuamente sottoposto a gravidanze e parti; oggi godiamo di un corpo sempre più liberato da queste catene, ma sempre meno libero da quelle del mito della moda. Salutiamoci con Tenco che, sebbene sia conosciuto per le sue canzoni strazianti, ne ha scritte anche di favolosamente sarcastiche come La ballata della moda:
«Stan decidendo per la prossima moda/Un pantalone a strisce gialle e nere/Basterà fare una gran pubblicità/Farlo indossare da qualche grande attore/Pasquale tra sé sorride/Ahahah ahahah/E dice: “Me ne infischio della moda/Io porto solo quello che mi va”/Ma io vedo già Pasquale/Ahahah ahahah/Chissà come starà male/Coi pantaloni a strisce gialle e nere».
¹ Genesi, 2,25
² Genesi, 3,7
³ Galimberti, pp.109-110
⁴ Galimberti, p.104
Barthes R., Sistema della moda (1967). Einaudi, Torino.
Galimberti, U., I miti del nostro tempo (2009). Feltrinelli, Milano.
Scritto da Dott.ssa Sofia Bonomi, Psicologa Milano Porta Romana e Brescia
Pubblicato in data 08/04/2022 su Echoraffiche
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