Che cosa rende La Gioconda l’opera d’arte più acclamata e demonizzata al mondo? Chiamiamo in soccorso Freud e la psicoanalisi, nel tentativo di svelare l’enigma celato nel suo celebre sguardo e nel suo sorriso.
Partiamo da un dato inconfutabile: La Gioconda di Leonardo da Vinci è ancora oggi considerata l’opera per eccellenza, la più celebre in assoluto, quella più visitata, la più riprodotta – sia da altri artisti, che ne hanno fatto la loro personale interpretazione, sia da gadget di ogni sorta. Scagli la prima pietra chi, trovandosi a Parigi, non ha fatto tappa al Louvre e non ha percorso a passo di centometrista i lunghi corridoi ricolmi di opere dal grande valore artistico per approdare, finalmente, al traguardo: un quadretto di 77×53 cm. Penso e spero che qualche pietra sia stata scagliata, ma vorrei ora che ci domandassimo che cosa stia alla base di un tale strepitoso successo.
Sono tanti gli elementi di quest’opera incerti, per non dire avvolti nel mistero: l’identità della modella ritratta -è Lisa Gherardini, nobildonna fiorentina, è Salai, il pupillo di Leonardo, è Caterina, la madre dell’artista, oppure si tratta di Leonardo stesso?-, il nome del committente del quadro, piuttosto che gli anni precisi in cui l’opera è stata dipinta. Oltretutto, è noto che le dame, nel 1500, venivano ritratte nei loro abiti migliori e con una quantità di gioielli tale da far impallidire i trapper moderni… Ma la nostra Lisa, povera donna, ne è totalmente sguarnita! Di lei è stato detto di tutto: ha le mani sul ventre? È senz’altro incinta! Ha un leggero velo sui capelli? È simbolo di lutto! Leonardo si cimentava in studi anatomici? Ma allora è il ritratto di un cadavere!
Ma, soprattutto, domandiamo a Lisa: che cosa stai cercando di dirci con quello sguardo e con quel sorriso? Su questo punto i critici si stracciano le vesti e, se la Gioconda fosse la Sfinge, si getterebbero nelle sue fauci pur di mettere fine al tormento del dubbio. Tra i critici d’arte, c’è chi legge il sorriso come timido, chi lo vede riservato, chi dolce; coloro che pensano sia seduttivo o sensuale sarebbe meglio non uscissero a cena con chi lo descrive come satanico e demoniaco. Lo stesso dicasi per lo sguardo: ora è voluttuoso, ora senza tempo, poi sfidante, forse intangibile, senz’altro misterioso. Chi lo descrive come languido e seducente, chi malinconico, chi ancora cieco. Un elemento destabilizzante è la sensazione che lo sguardo della Gioconda ti segua ovunque, tanto che ci si può chiedere se siamo noi a guardare lei o lei a guardare noi. E’ uno sguardo vivo tanto che sembra quasi di doverle chiedere il permesso di osservarla.
Diamo ora la parola a Freud che, mosso dall’interesse di penetrare nel segreto della Monna Lisa, ha dedicato lo scritto Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci al Genio del Rinascimento e al suo rapporto con la Gioconda. Egli intuisce che Lisa “aveva destato in lui [Leonardo, n.d.r.] qualche cosa che già da lungo era celato nella sua anima, verosimilmente un vecchio ricordo. Questo ricordo era abbastanza importante da non lasciarlo più, una volta ridestato; egli fu costretto a dargli sempre nuova espressione” [1]. In linguaggio psicoanalitico, si ipotizza che la modella fiorentina avesse un quid in comune con la madre Caterina, tale per cui il suo sorriso avesse ridestato la traccia mnestica (frammento di ricordo psicoaffettivo) incistata ma rimossa (e quindi inconscia) in Leonardo. Del sorriso materno il piccolo Leonardo ha potuto godere solo nei primissimi anni, a seguito dei quali l’ha perduto a livello conscio, insieme all’oggetto primario. Tradotto: le caratteristiche dello sguardo e del sorriso della Gioconda hanno ricordato a Leonardo quelle della madre; ragion per cui egli ha poi cercato, attraverso la pittura, di ritrovarli e con essi rivivere la sensazione di benessere legata all’infanzia.
E se anche gli artisti successivi a Leonardo che hanno reinterpretato il dipinto, e d’altra parte noi tutti osservatori più o meno profani, fossimo vittime dello stesso meccanismo? Dinanzi al volto dipinto da Leonardo ci troveremmo a proiettare degli elementi che ci appartengono, di cui non siamo potenzialmente consapevoli ma che emergono dal nostro inconscio e dal nostro passato. Questo meccanismo farebbe sì che ognuno, guardando La Gioconda, veda qualcosa di diverso, che appartiene a sé. La Monna Lisa, dal canto suo, non farebbe altro che riflettere come uno specchio, restituendo all’osservatore i propri contenuti. Alla luce di quest’interpretazione, non ci stupisce più il fatto che lo sguardo e il sorriso della modella siano percepiti da osservatori diversi in modo diverso e che, dunque, possano essere allo stesso tempo descritti come seduttivi, demoniaci o materni. Seguendo quest’ottica, consideriamo il successo riscosso dal quadro negli ultimi cinque secoli e i milioni di occhi che hanno cercato e trovato quelli della Monna Lisa, come un tentativo, sempre fallimentare, di porre fine al dubbio e risolvere definitivamente l’enigma. Va inoltre sottolineato che la tecnica pittorica dello sfumato ha senza dubbio un ruolo cruciale nel rendere gli elementi sul volto della modella incerti, interpretabili, dubbi, proprio come ci apparivano quei lineamenti che, appena nati, cercavamo di cogliere ma che potevamo solo intuire: quelli disegnati sul volto della madre.
Dunque, lo psicoanalista si domanda: perché andiamo al Louvre a visitare quella modella ritratta sul piccolo quadretto? Lo psicoanalista risponde: non perché bella, non perché tecnicamente ineccepibile, non perché amiamo l’arte più del pain au chocolat, ma, ahimè, perché ci ricorda inconsciamente la mamma, primo bersaglio di amore incondizionato e odio senza freni.
Ebbene, se la mamma è sempre la mamma, dicasi altrettanto della Gioconda!
[1] Freud, S., (1910), Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci. OSF, vol.6.
Forcellino, A., (2016), Leonardo Genio senza pace. Gius. Laterza, Bari-Roma.
Immagine di copertina: Colored Mona Lisa, di Andy Warhol
Scritto da Dott.ssa Sofia Bonomi, Psicologa Milano Porta Romana e Brescia
Pubblicato in data 29/10/2020 su Echoraffiche
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