All’angoscia sociale scatenata dall’emergenza climatica in corso, si può rispondere in diverso modo: la sfida è allargare all’esterno il campo psichico, per far sì che, laddove vi era la negazione, possa aprirsi uno spazio per nuove consapevolezze.
L‘importanza mediatica della crisi ambientale sembra seguire dei precisi intervalli, alternando momenti di risonanza enorme e momenti di quasi assoluto silenzio. In particolare, sembra che diventi di primaria importanza solo in assenza di avvenimenti più gravi e più urgenti da trattare. L’occhio più attento noterà come i movimenti ambientalisti tra cui il Fridays for Future, oggetto di dibattito quasi quotidiano nel periodo pre-pandemico, sembra siano improvvisamente scomparsi dall’agenda prioritaria dei governi e dalle penne dei giornalisti. Certamente – direte voi – fronteggiare il Coronavirus e adesso anche la guerra in Ucraina, sono questioni ben più urgenti e importanti! Lo sono senz’altro. Ma al contempo voglio ricordare che nel 2018, Mercalli, noto meteorologo, insisteva dicendo che “non c’è più tempo”. Questa retorica, largamente usata per descrivere la crisi climatica, crea un allarme, un’angoscia sociale, da cui l’individuo cerca di proteggersi.
La sensazione è quella di essere colpevoli e impotenti; il fenomeno è così esteso e complesso da far percepire al singolo che, se da un lato le sue scelte di vita hanno contribuito a creare un danno profondo se non irrecuperabile alla natura, dall’altro lato sembra che modificare il proprio stile di vita sia un contributo così scarso da essere, tutto sommato, inutile perché troppo poco incisivo. Per difenderci dalla presa di coscienza dell’impatto gravoso che abbiamo sull’ambiente, tendiamo a spostare il problema sui grandi players della scena mondiale: la responsabilità, quindi, non è più nostra, ma delle grandi industrie, degli enormi allevamenti di bestiame, dei governi e delle politiche anti-ecologiche ed incentrate solo sul guadagno che portano avanti. E ancora, anche a livello di appartenenza culturale, ci sembra che sia la Cina ad inquinare troppo con le sue aziende, o ci raccontiamo che sono gli americani a impattare maggiormente a causa di uno stile di vita consumistico e iper-produttivo.. e così via. Attraverso due meccanismi di difesa, lo spostamento e l’intellettualizzazione, ci scagioniamo dalla responsabilità e ci convinciamo che è inutile cambiare il nostro stile di vita, se il problema deriva da altri (per approfondire alcune difese psichiche, leggi questo articolo!). Si approda così a tre tendenze difensive: il negazionismo, in cui la realtà è intenzionalmente distorta per non dover assumere posizioni che si vuole evitare, la negazione, in cui la realtà rimane intatta ma viene negata per non doverla affrontare, e il diniego, in cui l’angoscia porta il soggetto a rifugiarsi in una realtà altra e più sicura. Eccoci immersi in quella che Ghosh definisce la “Grande Cecità”, determinata non dal ‘non poter vedere’, ma dal ‘non voler vedere la realtà per com’è’; ricorda molto il concetto di allucinazione negativa, in cui il soggetto non crea una realtà altra, ma cancella, sbianca, ed elide una parte della realtà condivisa, in quanto fronteggiarla risulterebbe psichicamente impossibile. La società occidentale nel suo insieme, così come ogni individuo che la compone, assume una posizione definita da Lanternari ‘antropocentismo dogmatico’, in cui il profitto personale prevale a discapito di una visione più ampia che includa la natura come alterità da rispettare. L’uomo oggi tende a considerarsi come un individuo a sé stante, in un’ottica di diffuso egoismo in cui le priorità sono stabilite da criteri interni non condivisi, noncuranti delle possibili conseguenze negative per altri: per le future generazioni, per la natura, per gli animali. L’interesse e l’investimento sono rivolti all’interno, a sé stessi, e finché non saremo in grado di ampliare ed estendere la visione all’esterno, difficilmente le chiacchiere sul tema dell’ecologia diverranno azioni concrete.
Un’interessante interpretazione psicoanalitica delle dinamiche che regolano l’uomo e la natura che lo circonda, sono fornite da Schinaia: “[…] la fantasia di un seno-Terra infinitamente disponibile, la risposta schizo-paranoide al necessario svezzamento e la necessità di andare verso la posizione depressiva, con il relativo desiderio di riparazione nei confronti della perdita, del dolore e delle delusioni” (Schinaia, 2020, 54): sull’onda delle teorizzazioni kleiniane, l’Autore, assimila i movimenti necessari allo sviluppo del bambino con la madre, a quelli da compiere nei confronti della Madre Natura. Le risorse del seno, così come quelle della Terra, sono inizialmente percepite come totalizzanti e infinite. In un secondo momento, tuttavia, il bambino-uomo si accorge che il seno-terra non sempre è presente e disponibile a saziarlo: a volte infatti risulta assente, inadeguato, difficile da ottenere, condiviso con altri. E’ qui che il bambino-uomo entra nella fase schizo-paranoide in cui percepisce il seno-terra come buoni se e quando corrispondono alle sue richieste, e cattivi quando non lo soddisfano come vorrebbe. In quest’ultima occorrenza il bambino-uomo, sfoga l’aggressività e l’odio per la frustrazione dei suoi desideri contro quello stesso seno-terra che ama quando è presente. Successivamente un nuovo compito evolutivo è richiesto al bambino-uomo: accortosi che il seno-terra buono e il seno-terra cattivo coincidono, può entrare nella posizione depressiva in cui teme, con il suo odio e la sua aggressività dirette al seno-terra cattivo, di aver distrutto anche la sua controparte buona. Non gli resta che tentare di riparare, come può, ai danni inflitti a quest’oggetto amato e odiato, accettando che non sempre può corrispondere alle richieste avanzategli dal soggetto stesso.
Questo parallelismo fornisce una chiave di lettura dei movimenti che le società e gli individui che le compongono, stanno mettendo in atto nei confronti della natura. Dalla rivoluzione industriale in avanti la tendenza è sempre stata quella di svuotare il seno-terra il più possibile, seguendo un’ottica esclusivamente egoistica di desiderio e immediato soddisfacimento, alternando forse posizioni di amore totalizzante e odio furioso nei confronti dello stesso oggetto. Sembra invece che oggi, almeno a tratti, si inizi ad intravedere la possibilità di accedere alla posizione depressiva e quindi riparativa, attraverso un’apertura (speriamo non troppo tardiva), a politiche sociali e personali improntate sul rispetto e sulla consapevolezza della natura come altra da sé, e quindi non da utilizzare e sfruttare ciecamente ed egoisticamente solo per il proprio tornaconto.
Ghosh A., (2016). La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile. Vicenza, Neri Pozza.
Lanternari V., (2003). Ecoantropologia. Dall’ingerenza ecologica alla svolta etico-culturale. Bari, Dedalo.
Lombardozzi A., (2020). Cambiamenti climatici e crisi ambientale. Pensieri psicoanalitici per un’ecologia antropologica. In Rivista di psicoanalisi. Milano, Raffaello Cortina Editore.
Schinaia C., (2020). L’inconscio e l’ambiente. Psicoanalisi ed ecologia. Roma, AlpesItalia.
Immagine di copertina: Van Gogh, Giardino ad Arles (1888)
Scritto da Dott.ssa Sofia Bonomi, Psicologa Milano Porta Romana e Brescia
Articolo pubblicato in data 10/03/2022 su Echoraffiche.
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